Honda Four… Nasce la leggenda
Four. La Four. Per i giapponesi Nana-Han, cioè sette e mezzo. Conosciamo la pietra miliare della Honda.

Siamo a metà degli anni ‘60, la casa nipponica galoppa sì sui mercati, però non come vorrebbero i capi. Honda sta diventando leader mondiale, ma non può ancora definirsi tale. Un’ambizione alla portata, certo, però manca ancora il necessario blasone al marchio. Sul mercato regnano moto più grosse e più potenti e la concorrenza detiene ancora il primato della prestazione pura.
Lo scenario sembra essere peggiore! Dal costoso collegamento telex con la filiale americana (il fax ancora non esiste) arrivano dati di vendita preoccupanti. La CB450 Black Bomber va forte su strada, ma non nelle vendite. Gli americani continuano a preferire soprattutto le bicilindriche inglesi e i vertici in Giappone hanno già classificato il loro top di gamma come un completo fiasco.
Serve qualcosa di nuovo. Qualcosa di profondamente diverso per continuare a crescere sui mercati Occidentali. Le ambizioni di Soichiro e la sua dirigenza sono chiare. Come costruire una moto migliore, un po’meno.
I giapponesi stanno imparando in fretta. Progettano, sviluppano, collaudano, producono e migliorano a ritmi insostenibili per chiunque altro. Dal punto di vista della visione e dell’illuminazione, però, hanno ancora bisogno di qualche suggerimento.
Di quella che sarà la leggendaria Four se ne deve occupare Yoshiro Harada, capo dell’R&D moto. Harada comprende l’idea e ne intuisce il potenziale, ma incontra anche enormi difficoltà progettuali. La Honda ha tanta carne al fuoco, la maggior parte dei tecnici è impegnata nella rincorsa al mercato automobilistico, mentre le vendite della CB450 vanno male. Serve fare qualcosa e in fretta, molto in fretta.
L’idea prende forma. Quando venne inviata all’American Honda Motor (AHM) la prima ipotesi di progetto - che prevedeva 4 cilindri, 4 scarichi, velocità di punta di 125 miglia orarie (oltre 200 km/h) - suscitò una risposta preoccupata, ma positiva. La domanda sorgeva spontanea: alla Honda, un business alimentato principalmente dalle vendite del Cub e delle piccole cilindrate, sapranno vendere una moto così veloce e aggressiva?
In Giappone i problemi sono di tipo tecnico. I fornitori non dispongono di pneumatici, catene e freni adeguati a sostenere tali potenze e velocità. Alla Honda, inoltre, manca una pista di collaudo adatta, ma soprattutto manca l’esperienza per esaminare e valutare un modello con queste caratteristiche.
La progettazione del telaio viene affidata a Hisayasu Nozue, lo sviluppo del motore diventa dominio di Masaru Shirakura (che al tempo già lavorava sui modelli CB 250/350) mentre la parte stilistica tocca a Hitoshi Ikeda.
Il 13 febbraio 1968 il progetto viene classificato ufficialmente: è il n. 300 e lo sviluppo della Four prende il largo.
Quando sono pronte le immagini ufficiali del primo prototipo viene spedita una lettera. La data riporta il 16 Settembre, il destinatario è Bob Hansen: “Poiché hai dato tu l’idea al Sig. Honda di costruire la CB750 Four, ti inviamo le prime immagini della versione di produzione”.
Poche settimane dopo, quando il mondo intero rimane folgorato dalla Four presentata al Tokyo Motorshow (26 ottobre 1968), Harada porta i prototipi negli States e Bob Hansen manda i suoi tecnici di fiducia: Bob Young e Bob Jameson. La proficua collaborazione continua tutto l’inverno, ma si sposta in Giappone, dove i due Bob lavorano assieme agli ormai numerosi ingegneri distaccati sul progetto. Ormai sono in 69!
Nel mentre, in America, Hansen sa di dover preparare anche un impegno sportivo per dimostrare l’eccellente fattura e le prestazioni della CB750 suggerendo di correre la 200 Miglia a Daytona. “E se non vinciamo?” gli chiedono all’AHM, la risposta è ovvia: “Proprio per evitare questo dobbiamo chiedere al Giappone un impegno diretto”. Harada, al telefono con Hansen, entra subito nel dettaglio: “Che velocità dobbiamo raggiungere?”, per decidere si prende tre giorni. Quando richiama la risposta è quella sperata: “Possiamo raggiungere potenza e velocità necessarie a gareggiare. Possiamo vincere. Correremo a Daytona”.
Per gestire l’impegno viene richiamato Yoshiro Nakamura, già team manager della Honda in Formula1 e fresco vincitore della 8 Ore di Suzuka e del Bol d’Or nel ‘69 a poche settimane dall’inizio della commercializzazione. La decisione indispettisce Hansen, i ruoli non sono chiari. Nakamura preferisce tre piloti non americani: i due inglesi Bryans (campione mondiale 125) e Smith (specialista del TT) e l’irlandese Robb. Hansen, invece, preferisce Dick Mann, un veterano che conosce bene Daytona e gli avversari che prendono parte ai campionati americani. Anche Hansen e Jameson conoscono bene la tappa di Daytona e sanno quanto sia forte la concorrenza. Partecipa tutta la squadra Harley Davidson, Hailwood e Nixon con BSA e Romero con la Triumph, che parte dalla pole position con una velocità massima di 165 miglia orarie (oltre 260 km/h), dopo aver rischiato il tutto per tutto montando gomme più sottili in grado di reggere un solo giro, con la possibilità che esplodessero.


Scoppiano, invece, polemiche sulla derivazione di serie e l’interpretazione dei regolamenti. Si scopre che le BSA/Triumph ufficiali montano un cambio a 5 marce invece del 4 rapporti di serie, si vocifera addirittura di telai in titanio, mentre Bryans cade e incendia il motore perché i carter delle Honda ufficiali sono in magnesio (in produzione sono d’alluminio). I regolamenti non sono chiari, ma si dà comunque il via alla competizione. Jameson nei test ha scoperto che con il profilo delle camme più spinto e i giri regime più elevati sul circuito di Daytona - dove l’acceleratore è quasi sempre spalancato - il tendicatena della distribuzione si consuma precocemente. Fatta la scoperta avvisa Nakamura, che però sottovaluta l’allarme. Le tre Honda Four gestite dal team Nakamura si ritirano una dopo l’altra. Si fermano anche le BSA e le Harley, le migliori in pista fino a quel momento. Mann a bordo della Four è in testa ed è lanciato verso la vittoria, ma anche il tendicatena della sua Honda cede nonostante sia stato cambiato poco prima del via. Mann è costretto a rallentare quando mancano solamente 10 giri al traguardo con un vantaggio sull’inseguitore di 12 secondi.
Romero recupera un secondo al giro, al muretto della pit lane la tensione e il nervosismo sono alle stelle. Hansen dai box calcola che Mann può comunque riuscire a vincere amministrando il vantaggio purché il motore fumante regga fino al traguardo. A cinque giri dalla fine Nakamura va al muretto da Hansen e vuole far segnalare a Mann di riaccelerare, ma Hansen non accetta intromissioni negli ordini della sua squadra e risponde a tono: “Torna nel tuo box e fatti gli affari tuoi!”.
Per Hansen e la squadra americana è la consacrazione finale. Finale in tutti i sensi perché l'insubordinazione al muretto è stata palese e Hansen davanti ai giornalisti riconosce totalmente a Mann e Jameson il merito della vittoria. Forse ha già capito che dovrà fare le valigie. Dopo poche settimane dalla vittoria, andrà alla Kawasaki America.


Bob Hansen ci ha lasciati nel 2013, a 93 anni e la lettera spedita dal Giappone era incorniciata sulla parete di casa. Thanks Bob, we miss you!
